Il nostro CEAS è da sempre al centro di attività che mirano a risvegliare nella cittadinanza la curiosità e la sensibilità nei riguardi delle tematiche ambientali, siano esse sostenibilità, natura, buone pratiche, cultura scientifica, … e chi più ne ha più ne metta.
Per tale motivo abbiamo deciso di dare spazio e visibilità anche a scrittori e divulgatori che nei rispettivi ambiti diffondono tale verbo.
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Breve storia di un raggio di sole
di Gianumberto Accinelli
Edizioni Rizzoli 2018
MOBILITA’ secondo natura: SOSTENIBILE!
“Un altro sistema di dispersione del seme, utilizzato da tante piante, è volare con il vento. I vegetali dotano i propri semi o frutti di strutture simili ad ali (chiamate “pappi”) in grado di raccogliere la brezza e quindi allontanarsi dalla pianta madre. Il tarassaco, chiamato anche “soffione dei prati”, è forse la pianta più conosciuta a utilizzare questo mezzo di trasporto. I suoi semi possono viaggiare anche per centinaia di metri ondeggiando nell’aria con il loro piccolo paracadute.”
Raccontando il percorso di un raggio di sole dal momento in cui lascia lo spazio siderale a quello in cui vi fa ritorno dopo aver visitato ogni angolo della Terra, Gianumberto Accinelli nel suo libro “BREVE STORIA DI UN RAGGIO DI SOLE” ci insegna che la Natura non è fatta di regole e risposte, ma di caos e meraviglia.
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Possiamo salvare il mondo a cena – Perché il clima siamo noi
di Jonathan Safran Foer
Edizioni Guanda 2019
La Terra che ci mangiamo
Impronta ecologica: si intuisce facilmente di cosa stiamo parlando. Partiamo dal significato delle singole parole: ecologica, semplificando ha a che fare con gli esseri viventi e il loro rapporto di interdipendenza con l’ambiente naturale che li ospita, la loro casa e quindi con le risorse che la natura offre in termini di aria, cibo, acqua, suolo, minerali.
Impronta: è una traccia che possiamo lasciare quando camminiamo sulla sabbia o nel fango, è qualcosa che rimane. Un’impronta nel fango ci dice che un animale è passato di lì, quanto tempo fa, se era adulto o cucciolo. Lasciamo un’impronta imprimendo con forza la mano nella sabbia bagnata e più la pressione che esercitiamo è elevata più l’impronta sarà profonda. Così avviene nella vita di tutti i giorni per il nostro pianeta. Soddisfare i nostri bisogni, sia quelli essenziali che quelli più superflui, richiede una “fetta” di natura, un “morso” di Pianeta, lascia sempre una traccia. Più risorse consumiamo e più l’impatto sulla natura sarà elevato.
Quello che a volte ignoriamo è la quantità reale di natura che abbiamo usato, per esempio, per produrre la fetta di pane che mangiamo ogni mattina a colazione. Quanta natura occorre per avere un buon bicchiere d’acqua fresca, potabile e dissetante? E per far funzionare il mio smartphone multitasking? E per il cotone che compone la mia maglia?
L’impronta ecologica ci dice proprio questo: qual è l’estensione di terre produttive (eliminate ghiacciai perenni, Antartide, montagne impervie e deserti) che occorrono per produrre un determinato bene o servizio e, ovviamente, per smaltire i rifiuti relativi.
Parliamo di alimenti: per tutti i cibi di origine vegetale l’impronta è mediamente molto bassa, un buon chilo di pane fatto con farina di grano, magari coltivato localmente, impegna mediamente 8 m2 di terreno coltivabile per chilo e circa 1000 litri di acqua per lo più piovana.
Quanto mangia invece una mucca ogni giorno? Dipende dal mangime, dal tipo di animale e di allevamento, tuttavia per avere 1 kg di carne bovina il Pianeta deve mettere mediamente a disposizione 119 m2 di terre produttive e 15.400 litri di acqua. Se pensiamo a quanta carne si mangia all’anno nei paesi occidentali capiamo l’espressione degli ecologisti “Non c’è un pianeta B”. Eppure ci vorrebbe perché al ritmo dei consumi occidentali e di quelli crescenti di Cina e India arriveremo in pochi anni ad avere bisogno di un secondo pianeta funzionante e produttivo. Per ora non ce l’abbiamo.
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Vivere per qualcosa
di Luis Sepùlveda, Carlo Petrini, José Mujica
Casa Editrice GUANDA
CITAZIONE:
“Allora…la conclusione del mio racconto è che non c’è nessuna ragione per avere paura di questa gente che per salvarsi la vita vuole attraversare il Mediterraneo e arrivare nella prospera Europa. Dobbiamo avere l’intelligenza e la sensibilità necessarie per comprendere che anche noi siamo parte del problema che li obbliga a lasciare il loro paese”
Luis Sepùlveda
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Effetto serra effetto guerra – Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea
di Grammenos Mastrojeni, Antonello Pasini
Edizioni Chiarelettere 2017
La Terra che ci mangiamo: parte 2
Il mercato globale che fa girare per il mondo cibo, merci, energia e rifiuti porta con sé un effetto collaterale non trascurabile: l’export inconsapevole della nostra impronta ecologica. Tutto in ecologia è connesso, ma ancora di più se l’economia è globalizzata. La tazzina di caffè di stamattina ha richiesto quasi 140 litri di acqua, acqua che un ecosistema e un sistema irriguo dall’altra parte del mondo hanno dovuto fornire per fare in modo che una pianta fruttificasse.
Non solo per thè, caffè e cacao, ma anche cereali, grassi vegetali e alimenti animali utilizzati soprattutto come materie prime nei cibi trasformati portano con sé aria, acqua, suolo e forza-lavoro di paesi anche lontani, che forse non sapremmo nemmeno indicare sulla cartina geografica, ma di cui occupiamo virtualmente un pezzetto di territorio, ne sfruttiamo inconsapevolmente le risorse e in alcuni casi ne compromettiamo la salute e l’equilibrio ecologici. Nel peggiore dei casi sosteniamo con l’acquisto iniquità sociali e condizioni di lavoro insostenibili.
Si comprende bene che all’impronta ecologica non piacciono gli atteggiamenti localistici.
Un ragionamento, quello dell’impronta ecologica, che può essere applicato a diverse tipologie di valutazione. Molto immediata è sicuramente la misura dell’impronta idrica, che ci rende velocemente l’idea di quanti litri di acqua sono necessari per produrre un determinato bene o servizio. Più complessa, soprattutto nella valutazione delle conseguenze, è la carbon footprint, letteralmente l’impronta di carbonio, ovvero la quantità di anidride carbonica – CO2 che spariamo in atmosfera con ogni nostra attività. Qui vale ancora meno il concetto di territorio e locale, visto che l’aria è in assoluto il bene più in comune che abbiamo.
Come può l’emergenza climatica provocata in primis dalle enormi impronte di carbonio dei Paesi ricchi, quindi le nostre, decidere le sorti di comunità lontane? Quali sono gli effetti diretti e indiretti del cambiamento climatico sulle fragili economie di sussistenza dell’Africa subsahariana? E in che misura i nostri consumi quotidiani hanno a che vedere con le migrazioni di intere popolazioni nel bacino del Mediterraneo? Ecco il tema di questo consiglio di lettura.
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Water grabbing
Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo
di Emanuele Bompan Marirosa Iannelli
Edizioni EMI 2018
Elefanti e zucchero di canna
A chi non piacciono gli elefanti. Sono maestosi e calmi. Ci piace vederli incedere nella savana a branchi, seguire i documentari che li ritraggono padroni del loro habitat. Sottoscriveremmo subito l’impegno per proteggerli insieme all’ambiente unico in cui vivono, se non l’abbiamo già fatto. Come non indignarsi davanti ai roghi delle zanne sequestrate ai bracconieri e tolte al perverso commercio di avorio destinato ad abbellire ricchi salotti sotto forma di costoso soprammobile. Uno spreco di vita, di biodiversità, di bellezza.
Ricordo benissimo il mio primo giorno a Shewula, una comunità africana situata su di un altopiano al confine tra Swaziland, Sudafrica e Mozambico. Una realtà unica dove seguivo un progetto di cooperazione italiana quando ero laureanda. E’ a quei giorni che risale il mio primo incontro con l’elefante, che a dire il vero mi ero immaginata un po’ più poetico. Era un elefante maschio che si aggirava solo e stanco in una foresta di tronchi scorticati. La riserva si era rivelata nel tempo troppo piccola per lui e per il suo branco, che nel frattempo si era disgregato e indebolito.
Proprio in questa regione si estende una delle ultime foreste vergini dello Swaziland, nella splendida riserva naturale di Mlawula dove il fiume Mbluluzi porta con le sue anse acqua vitale per la pianura sottostante.
Ammirando il paesaggio dall’alto qualcosa ad un certo punto stonava. La foresta spariva e tutto diventava uniforme, monotono: infinite piantagioni di un verde splendente organizzate a blocchi squadrati occupavano tutto il territorio fino all’orizzonte. Era canna da zucchero, la cui pianta ricorda vagamente il mais quando d’estate è alto nella nostra pianura.
Dagli anni ‘70 la coltura di questa pianta e la produzione di zucchero di canna destinato all’esportazione ha preso piede in Swaziland generando uno dei più eclatanti casi di water grabbing mai documentati. Water grabbing significa letteralmente “accaparramento dell’acqua” e si riferisce a fenomeni di sottrazione di risorse idriche ad opera principalmente di attori economici potenti che traggono vantaggi economici dall’uso di una risorsa – l’acqua – vitale per le comunità e gli ecosistemi locali.
Quella della canna da zucchero è una delle agricolture più idrovore del mondo. Per essere precisi un kg di zucchero richiede 197 litri di acqua. In questa area dello Swaziland solo nel 2014 sono stati usati 230 miliardi di litri di acqua per irrigare le piantagioni di canna con il risultato di lasciare a secco le comunità locali che, vivendo esclusivamente di agricoltura di sussistenza e di allevamento per autoconsumo, non hanno tuttora diritto all’acqua per i propri bisogni primari e, nonostante la ricchezza portata dalle piantagioni, non vedono ancora infrastrutture dignitose per la gestione delle proprie risorse idriche.
Non solo: per sostenere le richieste di questo alimento caposaldo dell’economia globalizzata, le piantagioni si sono espanse rubando interi pezzi di foresta vergine e privando la fauna locale – il nostro povero elefante – dello spazio minimo di sopravvivenza.
Alla fine quanto pesa davvero un cucchiaino di zucchero?
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Camminare
Un gesto sovversivo
di Erling Kagge
Edizioni La Repubblica
Consiglio di lettura
50 anni fa le iniziative di protesta iniziarono il 22 aprile e terminarono una settimana dopo. Anche noi dopo una settimana concludiamo questa piccola rubrica nata per fornirvi spunti di lettura e riflessione sul nostro martoriato Pianeta.
La lettura che vi proponiamo oggi colpisce soprattutto per il titolo “Camminare – Un gesto sovversivo”. Per essere cittadini eco-responsabili a volte basta poco. Bastano piccoli gesti semplici, piccole scelte di tutti i giorni. Basta non comprare, basta non consumare, basta non sprecare. Basta non fare, un po’ come è avvenuto in questo lungo e faticoso periodo di isolamento costellato di rinunce, distanziamenti, sacrifici.
Restare un po’ più fermi dove si è.
Camminare invece di guidare.
Recuperare invece di buttare.
Usare due volte la stessa bustina di thè come facevano le nonne.
Questa malattia ci ha portato via tante cose e ha duramente colpito le uniche generazioni che avevano ancora idea di cosa vuol dire non sprecare. Non perché sapessero qualcosa sull’impronta ecologica ma perché c’erano tempi in cui non sprecare faceva davvero la differenza tra fame e sazietà, tra freddo e caldo. Chi non se lo scorderebbe.
Fare meno, ma meglio. “Camminare dilata ogni attimo”. Il tempo dura di più, perché l’esperienza è più intensa mentre si va piano.
Pensiamo già da ora, prima della ripresa, dove possiamo rallentare, dove possiamo andare a piedi piuttosto che in macchina. Eliminiamo gli sprechi, che a volte sono solo abitudini indotte.
Provare per credere.
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La meravigliosa vita delle api
di Gianumberto Accinelli
Edizioni Pendragon
Consiglio di lettura per la Giornata mondiale dell’ape – 20 maggio 2020
Apis mellifera: 30 milioni di anni fa è comparso sulla Terra questo incredibile insetto. Un essere vivente antichissimo che ha sancito per sempre il legame inscindibile con il mondo vegetale rendendo possibile l’espansione in quasi tutto il pianeta delle Angiosperme, le piante che per riprodursi usano i fiori.
Colori, forme e profumo dei fiori si sono evoluti insieme alle api attraverso il tempo e la selezione naturale creando un connubio biologico efficiente, produttivo e soprattutto bello!
Lo dobbiamo alle api e a tutti gli insetti impollinatori (non dimentichiamoci anche di loro!) se prati, boschi e giardini possono risplendere con colori, forme e profumi incantevoli.
E dobbiamo alle api e a tutti gli insetti impollinatori se ad ogni stagione possiamo raccogliere i frutti della terra e nutrirci. L’impollinazione entomofila (ovvero ad opera degli insetti) permette all’80% delle piante superiori, e alla maggior parte di quelle coltivate, di riprodursi e fruttificare.
Il ruolo fondamentale dell’impollinazione per il funzionamento degli ecosistemi è un vero e proprio “servizio” che gli insetti pronubi (impollinatori) quali sono le api ci elargiscono, un prestito a fondo perduto della natura, e che insieme a tanti altri servizi naturali viene definito “servizio ecosistemico”.
Per intenderci, se noi dovessimo pagare un esercito di operai per impollinare manualmente tutte le piante coltivate (ricordiamoci che senza insetti il fiore giallo del pomodoro non diventerebbe frutto !!) solo in Italia dovremmo spendere almeno 1600 milioni di euro all’anno. …insomma i pomodori sarebbero a peso d’oro! Se non è un servizio questo!
D’altronde se un solo chilo di miele richiede la visita di 2 milioni di fiori e 144.000 chilometri di volo a mezz’aria capiamo bene che il lavoro di questi insetti, domesticati da secoli di convivenza con l’uomo, non potrà essere facilmente sostituito nel caso probabile in cui le minacce tuttora concrete verso i popolamenti naturali e domestici delle varie specie di Api presenti sulla Terra dovessero continuare ad aumentare. Quali sono queste minacce?
Tante e complesse, ma una delle più semplici da capire è sicuramente legata alla chimica verde usata in agricoltura da circa 80 anni. Pesticidi, fitofarmaci, diserbanti hanno direttamente e indirettamente sterminato immense popolazioni di insetti e in generale artropodi a favore di monocolture intensive. Poi la distruzione degli habitat, in poche parole cemento e coltivazioni industriali.
Detta tra noi, anche il prato all’inglese ottimo per farci le capriole, è una dispensa vuota per le api.
Insomma “il progetto della natura e quello dell’uomo hanno una direzione diametralmente opposta: la natura crea infinite trame e le intreccia sempre di più mentre l’uomo recide questi fili e semplifica gli ecosistemi”.
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Atlante mondiale della zuppa di plastica
di Michiel Roscam Abbing
Editore: Edizioni Ambiente
Traduttore: Luchetti E.
Link al libro della casa editrice:
http://www.edizioniambiente.it/landing/zuppa-di-plastica/index.html
Documentario: Albatross
Link al documentario:
https://www.albatrossthefilm.com/watch-albatross
Consiglio di lettura e di visione per la Giornata mondiale degli Oceani – 8 giugno 2020
8 giugno 2020 Giornata mondiale degli Oceani: fu indetta dalle Nazioni Unite per ricordarci ogni anno quanto tempo è passato dall’Earth Summit (Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo) di Rio de Janeiro del 1992.
Dal 3 al 14 giugno 1992 si svolse in Brasile uno dei Summit più importanti della storia della governance ambientale: fu una pietra miliare perchè proprio da lì l’espressione e il concetto di “sviluppo sostenibile” presero piede ed entrarono nel lessico e nell’immaginario comune.
Il fatto molto più concreto che le risorse naturali si stessero velocemente esaurendo e degradando a tal punto da mettere in discussione la sopravvivenza dei nostri pronipoti uscì dalle élite scientifiche e diventò un presupposto, almeno sulla carta, delle future politiche nazionali e internazionali.
Nel gennaio dello stesso anno, a 20.000 km di distanza, al largo delle Isole Aleutine nel Pacifico settentrionale la nave Evergreen Ever Laurel perdeva, a causa di una immane tempesta oceanica, 12 container contenenti 28.800 tra paperelle, tartarughe, castori e rane giocattolo marcati The First years, tutti di robusta plastica galleggiante. Un evento sfortunato, ma comune quello dei mercantili che perdono i loro carichi accidentalmente, mentre percorrono gli oceani spinti dalla forza capitalistica dell’economia globale. In quel caso il mare, da via di comunicazione, si trasforma in una immensa – ma non infinita – discarica.
Siccome questi giocattoli di gomma destinati a sguazzare nelle vasche da bagno di tutto il mondo ora lo facevano nell’immenso oceano e siccome non erano decomponibili come pomodori divenne curioso il caso delle paperelle e degli altri animaletti spiaggiati recuperati e collezionati da alcuni abitanti delle coste americane negli anni successivi. Questi animaletti pare abbiano percorso almeno 25.000 km di mare seguendo le correnti oceaniche e finendo sulle spiagge di mezzo mondo.
Alcune di loro sembra abbiano inforcato il vortice polare artico e raggiunto l’Oceano Atlantico sopravvivendo a freddo e ghiaccio …e tuttora, dopo 28 anni, continuano a viaggiare indisturbate. In alcuni casi finiscono nel Great Pacific Garbage Patch, l’isola di rifiuti più grande del mondo, situata più o meno tra Hawaii e California. Una chiazza di rifiuti galleggianti estesa 3 volte la Francia e costituita per il 90% di rifiuti plastici. Tutto questo per dire che, sì, il nostro Pianeta è grande, grandissimo, ma ad un certo punto finisce. Tutto è strettamente connesso e ogni minimo nostro gesto ad un certo punto fa il giro del mondo. Come le paperelle naufragate. E anche per dire che la plastica è indistruttibile e tutta la plastica che produciamo e gettiamo ogni istante non si dissolve nel nulla, ma da qualche parte sta e starà per millenni, cambiando colore e forma, disgregandosi, ma senza cambiare la sua essenza.
Ai tempi dell’Earth Summit di Rio non era ancora così evidente sull’agenda dei delegati il problema della plastica in mare e del GPGP mentre oggi è, insieme all’emergenza climatica, una delle catastrofi ambientali peggiori a minaccia della salubrità degli oceani e dei mari di tutti il mondo. Nonché della nostra.
Oggi sappiamo che ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di plastica si riversano in mare e contaminano l’ecosistema marino a tutti i livelli. Sappiamo che di questi 8 milioni il 50% deriva da oggetti di plastica monouso, usati per un attimo e gettati. Sappiamo infine che a differenza delle paperelle frutto di un incidente in mare, l’80% dei rifiuti marini proviene dai fiumi, dalla terraferma. Il loro viaggio comincia sulla riva di un fiume, di un rio, di un canale, di un piccolo fossato o da un tombino. Dalle nostre città, dai bordi delle strade, dai parcheggi, dai cassonetti strabordanti e dai parchi dove facciamo i pic-nic.
A dire il vero comincia dalle nostre mani e a monte dalle nostre quotidiane abitudini di consumo. In fin dei conti comincia soprattutto dalle nostre scelte.
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L’orso non è invitato – gli animali, l’uomo, la scomparsa della biodiversità sulla Terra
di Gabriele Bertacchini
Prefazione di Alessandro Mosso e Ruth Pozzi. Introduzione di Davide Celli. Con il patrocinio di Animalisti Onlus e Lav – dalla parte degli animali. Infinito edizioni
Una fotografia chiara e attuale per riflettere sulle principali minacce per gli animali del Pianeta. Un viaggio per conoscere profondamente l’orso bruno, ma anche il lupo, le balene, il rinoceronte e altri animali a cui l’uomo ha “dichiarato guerra”. Un vero e proprio tour mondiale, fatto di dati, avvenimenti cronaca e curiosità per entrare in contatto con alcuni meravigliosi esseri viventi nei loro ambienti. La perdita di biodiversità nasce prima di tutto dai nostri modi di pensare. Per contrastarla è necessaria è urgente una nuova coscienza collettiva, basata sulla conoscenza e sull’etica.
Booktrailer del libro: https://www.youtube.com/watch?v=aLb0RxMO228
Comincato stampa
È da poco uscito il nuovo libro del naturalista bolognese Gabriele Bertacchini“L’orso non è invitato – gli animali, l’uomo, la scomparsa di biodiversità sulla Terra”. Le attuali e controverse discussioni che hanno portato la popolazione di orsi bruni in Trentino al centro dell’attenzione mediatica nazionale diventano un modo per riflettere su quella che è la posizione dell’uomo all’interno del territorio che lo ospita.
“La crisi è culturale – commenta Bertacchini. L’attuale riduzione di biodiversità, che sta avvenendo ad una velocità da cento a mille volte più elevata rispetto al ritmo naturale, è dovuta prima di tutto alle scale dei valori che si scelgono di adottare. Dobbiamo essere coscienti di essere il tassello di un mosaico più grande; del resto, in termini di biomassa, rappresentiamo solo lo 0,01 per cento della vita sulla Terra. Certe azioni o parole possiedono un importante peso educativo. Il rischio è di avere delle generazioni di controllori non più in grado di vivere in armonia con quanto ci circonda”.
Nei diversi luoghi del pianeta cambiano le storie e i protagonisti ma non le ragioni di fondo che sono alla base della perdita di biodiversità. È intuitivo comprendere come questa si possa verificare a seguito di una pressione mirata. Ad esempio, oltre che per contenere alcuni animali considerati “scomodi”, per impossessarsi di qualche cosa che loro possiedono: le zanne nel caso degli elefanti, le ossa nel caso delle tigri, le squame nel caso dei pangolini. Più sottile e rendersi conto di come ciò possa avvenire a seguito di azioni indirette, ovvero di piccoli comportamenti quotidiani che incidono sull’ambiente circostante andando a modificarlo. In questi casi vengono a mancare i filtri emotivi, quelli che si instaurano quando si vive qualche cosa in modo diretto, rendendo più difficile e complesso intervenire. Se un milione di specie animali e vegetali (ovvero una su cinque di quelle conosciute) sono a rischio di estinzione nel breve periodo, è soprattutto per questo motivo.
Le perdite di ambienti naturali, in questo senso, sono devastanti. Il più delle volte, senza che ce ne rendiamo conto, avvengono per soddisfare nostre esigenze accessorie.
Basta guardare le foto delle più grandi “miniere” da cui si estraggono i minerali che servono per produrre tutti gli oggetti che possediamo. Ogni cinque secondi scompare un tratto di foresta grande come un campo da calcio, magari solo perché nei Paesi più ricchi si vuole mangiare più carne (in Italia il consumo pro capite si aggira intorno ai duecento grammi al giorno).
In Italia, ogni giorno le coperture artificiali si sostituiscono a circa quindici ettari di terreno, magari solo per fare nuovi centri commerciali.
“Le nostre azioni, si veda l’esempio dei gas clima alteranti emessi in una città che provocano conseguenze ai poli, possono raggiungere tutti i posti della Terra. Per convivere con gli altri esseri dobbiamo essere consapevoli e responsabili. È questa, oggi, in un mondo globalizzato, la sfida maggiore. Si sta assistendo ad un pericoloso appiattimento della diversità. In un mondo sempre più uguale, invece, proprio la diversità potrà essere la chiave vincente. Ci sarà sempre più fame di autenticità”.
La bellezza della vita che ancora esiste è il punto di partenza per trovare delle risposte efficaci. “Se ci facciamo travolgere dall’armonia della vita, tanto da innamorarcene – conclude l’autore – non potremo fare altro che provare il desiderio di conservarla in tutte le sue forme, come se fosse una parte di noi. La nostra mano diventerebbe come una carezza in grado di custodire ciò che tocca”.
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C’era una volta il bosco
di Paola Favero e Sandro Carniel
Edizioni Hoepli
Consiglio di lettura
Val Maggiore, Catena del Lagorai. Il Lago di Cece è un meraviglioso specchio d’acqua di origine glaciale, che si può raggiungere agevolmente dalla Val di Fiemme percorrendo un facile sentiero forestale che attraversa foreste di abeti e larici così identitarie per questi luoghi.
Un tratto del percorso avrebbe dovuto condurre alla foresta che suona, dove grazie a condizioni di clima e di suolo particolari ed a una gestione forestale estremamente radicata nel territorio vivono i famosi abeti della musica, dal legno risuonante, che anche Stradivari usò per i suoi violini.
Celebri gli abeti bianchi della foresta di Paneveggio, poco lontano da qui e cuore dell’omonimo Parco regionale.
Una turista in bicicletta ci avverte che il sentiero è interdetto …la foresta non esiste più. Il 29 ottobre 2018 la tempesta Vaia ha spazzato via l’intero bosco. Esattamente come in moltissime località delle Alpi orientali, dalla Lombardia al Friuli, la tempesta più devastante degli ultimi 60 anni, almeno in Italia, ha schiantato quasi 90 milioni di m3 di legno, l’equivalente di circa 20 milioni di alberi.
Le foreste della Val Maggiore hanno subito un duro colpo e l’escursione che porta al lago è costellata di cantieri, teleferiche, man at works, che lavorano incessantemente per rimuovere i tronchi e lasciare il suolo libero di rigenerarsi.
Mentre i primi turisti cominciano a percorrere in lungo e in largo le valli più famose delle Alpi orientali non riesco ad abituare il mio sguardo, che va detto conosce queste montagne da una vita, a questa distruzione così estesa, presente a macchia di leopardo lungo tutte le valli, anche quelle secondarie, ai pendii pelati, ancora ricoperti di tronchi disseccati, stesi a terra secondo l’orientamento che gli ha dato il vento quella notte. Lo sguardo estasiato del visitatore viene incrinato e turbato da questi squarci improvvisi nell’armonia dei boschi centenari.
Anche il terreno, lasciato libero dalla presa salda degli apparati radicali degli alberi, comincia a cedere, inverno dopo inverno, e a franare letteralmente verso valle.
Risultano un po’ patetici e degni di ammirazione i larici sparuti che sono rimasti in piedi, unici in una intera collina, sentinelle solitarie quasi in attesa della prossima folata. Alberi resistenti, pionieri dei boschi più alti, i larici si sono evoluti forti, capaci di affrontare tempeste di neve, slavine e frane.
Peggio è andata per il peccio, l’abete rosso, tanta chioma e poca radice. Intere peccete rase al suolo con alberi completamente sradicati.
Le foreste non sono tutte uguali, molto dipende da come sono gestite storicamente, dalla varietà delle specie vegetali e dalla loro distribuzione. Foreste monospecifiche presentano meno resistenza alle avversità, mentre boschi vetusti, evoluti, con alta biodiversità hanno più resilienza e capacità di recupero.
Tuttavia, durante Vaia, molti versanti sono stati colpiti da venti a 150 km/h. In questo caso poco è servito essere larice o abete. Oltre certe intensità nessuna radice o chioma ha potuto avere la meglio.
L’intensità di Vaia non lascia dubbi sul fatto che il cambiamento climatico rende sempre più estremi e più ricorrenti eventi climatici in passato rari e straordinari.
Quando le foreste torneranno come prima? Forse è tempo di chiedersi se torneranno come prima. Alcuni degli alberi caduti erano nati quando ancora gli effetti del clima alterato non erano così evidenti e devastanti. I nuovi boschi saranno necessariamente diversi dal passato e dovranno, come noi, adattarsi all’innalzamento delle temperature, alle siccità, alle escursioni termiche improvvise, alla carenza di neve, a tempeste violente, a frane e alluvioni.
“Il paesaggio ecologico che conoscevamo sta rapidamente cambiando, e la crisi biologica innescata dall’uomo sta portando al collasso questa nostra Terra. Un mondo sta scomparendo, un altro sta iniziando”.
Leggere per credere C’era una volta il bosco di Paola Favero e Sandro Carniel.