Siamo al cospetto di un percorso educativo ed escursionistico che ha lo scopo di portare l’attenzione su un’area che in passato è stata oggetto di sfruttamento minerario per la raccolta della preziosa argilla che negli anni ’50 del secolo scorso ha portato allo sviluppo del comprensorio ceramico.
Uno sfruttamento che da un lato ha portato benessere economico al territorio, ma che dall’altro ha visto una devastazione del paesaggio durata per decenni.
Ora, grazie al progetto europeo “Mineland”, che vede al lavoro la Regione Emilia-Romagna, la Provincia di Reggio Emilia, il Comune di Baiso ed il CEAS (Centro di Educazione Ambientale e alla Sostenibilità) Terre Reggiane Tresinaro-Secchia, si è arrivati alla riqualificazione di quest’area abbandonata dopo la chiusura delle cave qui presenti.
Il percorso di 4 chilometri è un anello che scende verso valle con un dislivello di 200 metri fino all’area attrezzata vicino al Rio Giorgella, per poi risalire al punto di partenza con il medesimo dislivello.
Lasciato sulla destra il caseggiato di Casino, nei primi metri del sentiero, si cammina tra campi e boschi misti di querce e faggi. Il caseggiato è fuori percorso, ma si può notare la tipica architettura dell’edificio principale dotato di torre colombaia. Si tratta di strutture tipiche del XVII° secolo, che oltre a dare ospitalità ai colombi erano dotate anche di file ordinate di fori più piccoli per i rondoni.
Nel passato, soprattutto tra il Medioevo e l’età moderna, i piccioni e i rondoni venivano allevati per la loro carne, considerata una fonte di proteine pregiata e facilmente disponibile. In molte regioni europee, la carne di piccione era una parte importante della dieta, soprattutto nelle famiglie nobili o benestanti.
Ma questi animali non erano importanti solo per la carne, il guano dei piccioni, particolarmente ricco di azoto, fosforo e potassio, era un fertilizzante molto ricercato per l’agricoltura. Le torri colombaie erano progettate per raccogliere facilmente questi escrementi, che venivano poi utilizzati nei campi per aumentare la fertilità del suolo.
Dopo 700 metri dalla partenza si arriva ad un terrazzamento che ci mostra un punto di vista privilegiato sulle Argille Varicolori. Diversi pannelli didattici ci raccontano del passato di questa zona, di quando queste argille si trovavano sul profondo fondale dell’Oceano Ligure-Piemontese tra il Cenomaniano e il Campaniano (circa 100-72 milioni di anni fa, nel Cretaceo superiore), che esisteva prima della chiusura della Tetide.
Il percorso prosegue in discesa tra ginestre (Spartium junceum) e rose canine, aree che in primavera ospitano anche diverse fioriture di orchidee selvatiche, fino ad arriva al chilometro 1,4 ai ruderi di Cà Vai che danno il nome al percorso. Questi edifici ormai in rovina vedevano l’abitazione del contadino adiacente ad una struttura a fienile e ricovero per animali.
Lasciato il piccolo borgo si cammina a margine di vigne sul lato destro e dell’ecotono sul lato destro. Un ecotono è una zona di transizione tra due ecosistemi distinti, ad esempio tra un bosco e un campo coltivato o un prato. In questa fascia intermedia, le caratteristiche ambientali cambiano gradualmente, creando un habitat ricco di biodiversità.
L’ultimo tratto in discesa ci vede progressivamente entrare in una zona umida e non più arida come in precedenza. Iniziano a fare la loro comparsa alberi come il pioppo e qualche Pino Silvestre (Pinus sylvestris). Durante l’Ultima Glaciazione, che si colloca nel Pleistocene finale (circa 120.000 – 11.700 anni fa), il clima dell’Europa era molto più freddo di oggi. Le conifere boreali, tra cui il pino silvestre, erano diffuse a quote più basse rispetto ad oggi, poiché il clima era simile a quello delle attuali foreste boreali.
Con il progressivo riscaldamento dell’Olocene (iniziato circa 11.700 anni fa), la vegetazione si è spostata verso nord o a quote più elevate. Le popolazioni di Pino silvestre presenti in questa zona sono quindi considerate testimoni di un’epoca passata, quando il clima era molto più freddo. La loro presenza attuale è legata a condizioni particolari di suolo e clima, che hanno permesso loro di non essere soppiantati completamente dalla vegetazione decidua più tipica di questa zona.
Dopo 2,1 chilometri dalla partenza si arriva all’area attrezzata del Rio Giorgella. Siamo nel punto più basso del nostro anello e qui le argille ci mostrano i segni migliori del loro passato.
Camminare in questa zona è come camminare sul fondale di una “piana abissale” ad una profondità tra i 3.000 e i 6.000 metri, dove non arriva la luce e l’ossigeno è quasi del tutto assente. Gli esseri viventi adattati a vivere a queste profondità si nutrivano principalmente di batteri chemiosintetici (che usano sostanze chimiche per produrre energia), cibo per organismi più grandi come bizzarri vermi tubicoli (POLICHETI), bivalvi, crostacei, ecc… Tutti esseri viventi che non fossilizzano facilmente, ma che nelle argille del Cretaceo (145-66 milioni di anni fa), che affiorano qui, hanno lasciato traccia del loro passaggio.
A rendere tutto più suggestivo ed immersivo abbiamo una fantastica ricostruzione a dimensione reale di un “Mosasauro“. Nel 1886, nel letto del Rio Marangone, a circa 5 km da qui, fu trovato un frammento del muso di Mosasaurus cf. hoffmannii, oggi conservato nelle collezioni paleontologiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Parliamo di un grande rettile marino che dominava in questo oceano, delle dimensioni degli attuali cetacei, lungo circa 12 metri e pesante tra le 10 e le 12 tonnellate.
A fare da cornice abbiamo un piccolo giardino botanico che colleziona piante tipiche dell’ambiente calanchivo.
Da qui riprende la salita che ci riporterà al punto di partenza. Tra campi, boschi e coltivazioni. Prima di allora si passerà dai ruderi dell’abitato di Casa Pietracava a 3,2 chilometri di cammino. L’ultimo tratto riemerge dal bosco per proseguire tra gli affioramenti di argille varicolori fino alla chiusura dell’anello poco distante da Casale di Baiso.








I pannelli sono stati realizzati con due tagli di lettura: il primo per adulti, il secondo per bambini.
IL MOSASAURO
Il Mosasauro di Baiso è uno dei più importanti ritrovamenti paleontologici dell’Appennino Emiliano. Si tratta di un fossile di rettile marino vissuto nel Cretaceo superiore, circa 80 milioni di anni fa, quando la zona di Baiso era sommersa da un mare tropicale.
I Mosasauri erano rettili marini predatori imparentati con gli attuali varani e serpenti. Potevano raggiungere dimensioni considerevoli (anche oltre i 10 metri di lunghezza) e dominavano i mari del tardo Mesozoico, cacciando pesci, ammoniti, Plesiosauri e altri rettili marini come altri Mosasauri. Era dotato di una seconda fila di denti nel palato (come nei serpenti odierni) che gli permetteva di trattenere meglio le prede e inghiottirle intere. Avevano un corpo idrodinamico, arti trasformati in pinne e una potente coda che permetteva loro di muoversi rapidamente nell’acqua.
Il primo fossile fu scoperto nel XVIII secolo nei Paesi Bassi e fu inizialmente scambiato per un coccodrillo preistorico. Esso era imparentato con i moderni varani e serpenti, suggerendo un’origine comune per questi rettili. Tuttavia nuotava con un movimento della coda simile agli squali, e non come le iguane marine che usano le zampe per spostarsi.
Mosasaurus hoffmannii è una delle specie più imponenti di mosasauri, si estinse 66 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo, a causa dell’evento catastrofico che portò alla scomparsa dei dinosauri non aviani. L’impatto dell’asteroide di Chicxulub e i cambiamenti climatici successivi portarono alla drastica riduzione delle risorse marine, causando il collasso delle catene alimentari oceaniche.
Il mosasauro di Baiso rappresenta una delle rare testimonianze di questi grandi rettili marini in Italia, confermando che nell’area oggi occupata dall’Appennino reggiano un tempo si estendeva un bacino oceanico profondo, parte dell’antico Oceano della Tetide, chiamato Oceano Ligure-Piemontese.
Il fondale dell’Oceano Ligure-Piemontese, da cui provengono le argille di Cà Vai e i sedimenti che hanno conservato il Mosasauro di Baiso, si trovava in origine molto più a ovest rispetto alla sua attuale posizione.
Dove si trovava il fondale oceanico?
Circa 80-90 milioni di anni fa (durante il Cretaceo superiore), l’area oggi occupata dall’Appennino Emiliano era parte di un antico bacino oceanico profondo, il Bacino Ligure-Piemontese, che si estendeva tra l’attuale Corsica-Sardegna e la futura area alpina. In sostanza, i sedimenti e i fossili che oggi troviamo sulle colline reggiane si depositarono sul fondo di un oceano situato a centinaia di chilometri più a ovest, probabilmente al largo delle coste dell’attuale Francia meridionale o del Piemonte meridionale.
Come è arrivato a Baiso?
Questo antico fondale marino è stato trasportato e sollevato fino all’attuale posizione a causa della collisione tra la placca africana e la placca europea, che ha chiuso l’Oceano Ligure-Piemontese e ha dato origine agli Appennini. Questo processo, iniziato circa 30-35 milioni di anni fa (Oligocene-Miocene), ha spinto verso est e sovrapposto gli strati oceanici alle unità sedimentarie già presenti.
Quindi la preziosa presenza del Mosasauro di Baiso conferma una volta in più che si trattava di un ecosistema marino aperto e ben popolato, non una semplice laguna costiera.





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